Verruche plantari, occhio di pernice, calli e duroni
riceve a SALERNO
Differenza tra occhio di pernice, calli, duroni e verruche dei piedi
Le verruche plantari sono formazioni cutanee indurite localizzate alla pianta del piede, e rispetto alle comuni verruche esofitiche (i cosiddetti porri) appaiono più incassate e meno rilevate sulla superficie cutanea. Sono infatti delle verruche endofitiche, cioè profonde, in quanto a causa della sede particolare in cui si formano (sotto ai piedi) sono sottoposte alla continua pressione del peso del corpo. Per questo motivo, le verruche plantari non si elevano in superficie come le comuni verruche presenti in altri distretti corporei, e inizialmente vengono spesso scambiate per semplici callosità, fino a quando il tipico dolore alla pressione, e la comparsa di elementi diagnostici caratteristici, le rendono facilmente riconoscibili anche a casa. Le verruche plantari si manifestano soprattutto sui punti di appoggio del piede a terra (per esempio calcagno, regione mediale e laterale dell’avampiede), sulle dita (spesso scambiate per calli) o tra le dita dei piedi (talora scambiate per occhi di pernice), e a volte possono essere così dolenti da rendere difficile la deambulazione. Quando le verruche sotto al piede sono troppo profonde, le persone riferiscono la sensazione di avere come una spina o un chiodo o comunque un corpo estraneo nella scarpa, con fitte dolorose che in alcuni momenti della giornata possono diventare pulsanti, intermittenti, spontanee o persino persistenti.
Come si riconoscono le verruche plantari
Le verruche plantari si presentano come ispessimenti cutanei incassati, localizzati e rotondeggianti, di aspetto cheratosico e di un colore che varia a seconda della sede dal giallo al grigio-bianco. Quando presenti ai piedi le verruche sono delimitate da un orletto ipercheratosico che segna un confine netto rispetto alla cute circostante, spesso anch’essa dolente, nelle persone con verruche di vecchia data o particolarmente profonde. Le verruche plantari possono essere singole o multiple (verruche a mosaico), talora possono confluire in placche callose particolarmente spesse, dure e dolenti alla palpazione. A volte il dolore è così forte che diventa difficile camminare o praticare attività sportive come piscina, calcio o danza. Le verruche plantari sono di frequente osservazione in dermatologia pediatrica, ma oltre che nei bambini e negli adolescenti, si possono manifestare anche negli adulti sia di sesso maschile che femminile.
Le verruche dei piedi hanno spesso al loro interno dei piccoli occhietti neri
A volte all’interno delle verruche plantari è possibile osservare dei puntini neri (i cosiddetti occhi delle verruche della medicina popolare di un tempo) che sul piano istologico corrispondono alle papille dermiche dilatate e ripiene di sangue coagulato (trombosi dei capillari presenti nel derma superficiale con conseguente emorragia puntiforme nello strato corneo). La punteggiatura nerastra, non sempre apprezzabile a occhio nudo, diventa ancor più visibile durante la terapia con cheratolitici (ad esempio quando la verruca viene levigata con una limetta di cartone o con pietra pomice). Al tatto le verruche dei piedi appaiono leggermente rialzate, ruvide e dolenti. Mentre per le verruche piane del viso e delle mani, e per le comuni verruche rialzate (verruche esofitiche o porri) la regressione spontanea è più frequente, per le verruche plantari è raro che ciò possa avvenire spontaneamente, ma non impossibile. Il dolore è legato alla crescita endofitica della verruca che comprime le terminazioni nervose della pelle, e nei casi estremi può comprimere anche la fascia plantare. Il diametro che appare sulla superficie cutanea può a volte essere la punta di un iceberg più profondo, e per questo è importante programmare una terapia dermatologica per eliminare gradualmente l’intera verruca in tutto il suo spessore, e non soltanto la callosità che appare in superficie.
Quali esami effettuare per le verruche plantari?
Al momento della visita dermatologica le verruche plantari sono facilmente riconoscibili per le loro caratteristiche cliniche patognomoniche, e di solito non occorrono esami. Nei casi dubbi, ad esempio se si sospetta un neo o qualche altra neoformazione, è possibile effettuare una dermatoscopia, metodica rapida e non invasiva a disposizione di tutti i dermatologi. La dermatoscopia è una tecnica diagnostica utilizzata al momento di controllare i nei, e si basa su fenomeni fisici come epiluminescenza e luce polarizzata per visualizzare caratteristiche microscopiche melaniche e vascolari che consentono di distinguere una comune verruca plantare da altre manifestazioni cutanee apparentemente simili. Nei rari casi in cui i puntini neri delle verruche plantari potrebbero a vista simulare formazioni melanocitiche (per esempio melanoma acrale, pseudocromidrosi plantare, etc), un comune dermatoscopio consente al dermatologo di chiarire ogni dubbio. La presenza di un reticolo di melanina ad esempio, è indice di una formazione melanocitica e non di verruca. La luce polarizzata consente di evidenziare le tipiche emorragie puntiformi anche su superfici cutanee molto cheratinizzate. A ingrandimenti maggiori si può osservare che i piccoli capillari trombizzati si trovano all’apice delle papille dermiche, che appaiono alla dermoscopia come aree biancastre o giallastre. Quando anche alla dermatoscopia il quadro è poco chiaro, può essere effettuata una biopsia cutanea. In presenza di verruche plantari all’esame istologico l’epidermide presenta fenomeni di paracheratosi e ipercheratosi, mentre le papille dermiche, allungate e dilatate, contengono al loro interno vasi trombizzati che all’osservatore esterno danno l’impressione di vedere gli occhietti della verruca, assenti invece sia nei calli che nei duroni. I piccoli filamenti cheratosici sono ben visibili con il dermatoscopio e a volte persino a occhio nudo (soprattutto per le verruche associate a HPV 4, HPV 60 e HPV 65), e somigliano alla radice filamentosa di un ortaggio simile alla cipolla: il porro, motivo per cui da oltre 2000 anni le verruche sono comunemente ricordate come porri.
Verruche plantari e Papillomavirus HPV
Le verruche plantari sono associate alla presenza di alcuni sottotipi di Papillomavirus umano (HPV = Human Papilloma Virus), famiglia di virus riscontrati anche nelle persone con verruche piane, verruche filiformi, verruche volgari, epidermodisplasia verruciforme, verruche del cavo orale, verruche periungueali (intorno alle unghie), papulosi bowenoide, tumore di Buschke Lowenstein e condilomi. Si tratta di una famiglia di virus piuttosto ubiquitari e la contagiosità delle verruche plantari è legata più alle difese generali e locali dell’individuo (per esempio presenza di ferite o microtraumi della pelle, cute macerata, eczema disidrosico, cheratolisi punctata) che all’indice di contagiosità del virus. È il motivo per cui a volte vi è un’unica persona con verruche plantari all’interno di uno stesso nucleo familiare. Ad esempio nelle persone con una barriera cutanea più vulnerabile (per esempio i pazienti con prurito persistente o con dermatite atopica) è più facile riscontrare verruche e molluschi contagiosi, pur in assenza di manifestazioni cliniche negli altri conviventi. Attualmente è stato sequenziato il genoma di oltre 220 ceppi di HPV, ed è stato osservato che mentre da un punto di vista strutturale questi virus sono molto simili tra loro, da un punto di vista patologico, alcuni di essi hanno un tropismo verso la pelle, mentre altri verso le mucose. Da un punto di vista microscopico i papillomavirus sono piccoli virus a DNA del diametro di circa 55 nm e costituiti da 72 capsomeri. Sono patogeni solo per l’essere umano, nel senso che le verruche non sono trasmissibili dagli animali all’uomo e viceversa. Le verruche plantari sono spesso associate alla presenza di papillomavirus epidermotropi (per esempio HPV 1, 2, 3, 4, 27, 19, 41, 57, 60, 63, 65, 66). Solitamente le verruche plantari più profonde e dolenti sono associate soprattutto alla presenza dell’HPV di tipo 1, mentre le verruche plantari a mosaico sono più superficiali e maggiormente associate alla presenza dell’HPV di tipo 4. Così come le verruche periungueali di mani e piedi sarebbero maggiormente associate all’HPV60. Ovviamente il tipo di terapia delle verruche plantari dipenderà dal quadro clinico riscontrato al momento della visita dermatologica e non dal sottotipo di papillomavirus.
Differenza tra calli, verruche, occhio di pernice e duroni
Mentre le verruche sono di origine virale, calli, duroni e occhi di pernice sono dermatosi di origine meccanica, in cui lo sfregamento cronico della pelle induce un ispessimento difensivo dell’epidermide. Tutte le callosità rappresentano infatti un meccanismo di difesa della pelle, che sottoposta a un maggior attrito reagirà con acantosi e ipercheratosi, diventando in questo modo più resistente a fronteggiare le aumentate sollecitazioni ambientali. Se l’attrito supera i limiti di resistenza biologica della pelle, si possono formare delle bolle traumatiche (le cosiddette vesciche che compaiono ai piedi quando ad esempio camminiamo per molto tempo indossando un nuovo paio di scarpe). Quando invece l’attrito è cronico (per esempio nelle persone allettate), le aree sottoposte a sfregamento meccanico possono andare incontro a vere a proprie ulcere da pressione (come accade ad esempio con le piaghe da decubito). I duroni sono dermatosi meccaniche localizzate soprattutto sulla superficie posteriore o laterale della pianta dei piedi, e sono quasi sempre legati al tipo di postura o al tipo di calzature utilizzate. I calli sono invece più simmetrici, più circoscritti, non hanno i tipici occhietti delle verruche, i bordi sono meno netti e si manifestano alle aree di appoggio della pianta dei piedi. Sulla superficie cutanea della verruca mancano i dermatoglifi (cioè i normali rilievi epidermici che formano le impronte digitali), mentre sui calli i dermatoglifi sono non solo ben conservati, ma persino evidenziati. I calli scompaiono quando viene rimossa la causa scatenante, cioè quando viene ridotta la pressione di contatto o lo sfregamento meccanico.
Diagnosi differenziale di calli, verruche, occhi di pernice e duroni
Il callo o clavo è un ispessimento circoscritto dello strato corneo, mentre la callosità, nota anche come tilosi o durone è un ispessimento epidermico più diffuso (ipercheratosi). Ai piedi calli e duroni (heloma durum) si presentano nei distretti maggiormente sottoposti a pressione o a sfregamento meccanico ripetuto, per esempio a causa di una cattiva postura, o di calzature inadeguate, per esempio al primo metatarso, all’estremità delle dita (tiloma apicale), sulla superficie dorsale delle articolazioni interfalangee delle dita (tiloma dorsale) o alla superficie dorsolaterale del quinto dito del piede. Quando i calli si formano nei pressi dell’unghia (calli periungueali) o addirittura sotto l’unghia (calli subungueali) si parla di onicofosi e in questo caso i calli diventano particolarmente dolenti all’interno della scarpa. Al momento della visita dermatologica queste formazioni periungueali vanno distinti da altre manifestazioni cutanee apparentemente simili (per esempio melanoma ungueale, esostosi subungueale, cisti mucoidi, fibrocheratomi digitali, nei), ma dal decorso clinico completamente diverso. Esiste anche una rara forma miliare di calli (heloma miliare) che sembrano tante piccole depressioni incassate simili a una cheratolisi punctata, ma in assenza di macerazione cutanea. L’occhio di pernice (heloma molle o tiloma interdigitale) si forma soprattutto negli spazi tra il quarto e il quinto dito. È leggermente rilevato e presenta un colorito biancastro dovuto alla macerazione cutanea provocata dal sudore dei piedi. Trovandosi stretto negli spazi interdigitali, l’occhio di pernice esercita una certa pressione sul dito adiacente, creando un dolore speculare. Il dolore pulsante provocato dall’occhio di pernice è dovuto al fatto che in profondità tende a irritare le sottili terminazioni nervose della pelle. Le persone diabetiche, con alluce valgo o con problemi di postura sono più predisposte a sviluppare un occhio di pernice tra le dita dei piedi. Nel suo trattato di Igiene della pelle, il dermatologo inglese William James Erasmus Wilson dedicò nel 1855 un intero capitolo a calli e verruche, e definì l’occhio di pernice un vero e proprio tormento. Wilson definì l’occhio di pernice un callo molle e dolente che curava con applicazioni di acido acetico forte, consigliando inoltre di tenere un batuffolo di ovatta tra le dita, come distanziatore. Nel manuale delle malattie cutanee pubblicato nel 1871 dal dermatologo bolognese Pietro Gamberini i termini callo, verruca, occhio pollino, occhio di pernice, porro e corno cutaneo sono utilizzati come sinonimi. Nel dizionario genovese italiano del 1876 comparve la voce popolare occhio di pernice con la seguente definizione: “verruche dolorose che si producono tra le dita dei piedi, così chiamate per avere al centro una piccola punta nera simile alla pupilla dell’occhio della pernice»”. Al momento della visita medica il dermatologo provvederà a escludere eventuali neoformazioni cutanee che potrebbero entrare in diagnosi differenziale con calli, duroni, occhi di pernice e duroni, tra cui la cheratolisi punctata, il granuloma piogenico, il sarcoma di Kaposi, il cheloide, la sifilide secondaria papulosa, il lichen planus, la psoriasi plantare, l’eczema disidrosico, la pseudocromidrosi plantare, il cheratoma plantare, il mucocele, le cheratodermie palmoplantari e l’acrodermatite verruciforme di Hopf. Le cisti mucoidi digitali di Hyde sono note anche come mucocele o pseudocisti mucoidi, sono noduli traslucidi di frequente osservazione in dermatologia, e si formano soprattutto sulle dita delle mani e dei piedi. Le vesciche sono invece delle comuni dermatosi traumatiche che si verificano quando l’attrito è particolarmente intenso o persistente (per esempio quando si utilizzano calzature nuove o inadeguate).
Le verruche plantari nella Storia della dermatologia
Verruche, calli, duroni e condilomi erano già noti ai tempi del medico greco Ippocrate di Kos. I greci chiamavano le verruche plantari con il nome mirmecia (dal greco μυρμηγκοφωλιά = formicaio) probabilmente a causa della depressione centrale che a volte può avere un aspetto simile a quello di un formicaio (vedere foto). I romani preferivano invece il termine verruca (la verruca è la cima più alta dei monti). Utilizzavano anche il termine porro, in quanto le verruche presentano spesso al loro interno dei piccoli filamenti che ricordano le radici filamentosi dei porri, comuni ortaggi simili alle cipolle. Nel III secolo a.C. il console romano Quinto Fabio Massimo era chiamato verrucoso a causa di una vistosa verruca sul labbro superiore. Nel 25 d.C. il medico romano Aulo Cornelio Celso distinse le verruche a seconda della localizzazione in acrochordon (viso e tronco), timio (genitali) e mirmecia (piedi). Nell’antica Roma vi era la credenza che le verruche fossero causate dai rapporti sessuali promiscui come documentato nel I secolo d.C. dal poeta latino Marco Valerio Marziale. Si narra persino che il cognome di Cicerone derivasse da un suo antenato con una grossa verruca a forma di cece sul naso. Sempre nel I secolo d.C. il medico greco Galeno di Pergamo proponeva come terapia delle verruche lo strappamento con i denti: «Si succhiano con le labbra in modo da ridurle abbastanza pieghevoli e così sporgenti, per in seguito strapparle coi denti». A volte si ricorreva a un insetto simile a un grillo, il locustone brizzolato (Decticus verrucivorus) per far mordere le verruche con le sue potenti mascelle. Nel II secolo d.C. il medico cartaginese Costantino l’Africano associava la comparsa delle verruche a un eccesso di bile nera, in linea con la teoria umorale proposta secoli prima da Ippocrate. Il medico persiano Avicenna chiamava le verruche plantari chiodi, per il dolore che causano durante la deambulazione. L’utilizzo del lattice dei fichi per curare le verruche plantari era già noto ai tempi della Scuola Medica Salernitana. I medici dell’antica Scuola Medica di Salerno curavano le verruche con il sugo di salce, ottenuto cuocendo la corteccia del salice nell’aceto, e anticipando di circa 1000 anni l’acido salicilico che utilizziamo ancora oggi nei moderni callifughi e cheratolitici per verruche. Per causticare le verruche si utilizzava anche la polpa di ruta (Ruta graveolans) e le uova di formica (acido formico). Come rimedio meno invasivo si lasciava strisciare una lumaca senza guscio sulla verruca (ancora oggi utilizziamo la bava di lumaca in dermocosmetica per il suo contenuto in collagene, acido lattico e acido glicolico). Nell’XI secolo d.C. la medichessa salernitana Trotula De Ruggiero spiegò all’interno del suo De Ornatu Mulierum come rimuovere le verruche mediante ago, calce spenta e unguento di giglio. Una pianta molto utilizzata all’epoca per la cura delle verruche era l’eliotropo, noto anche come verrucaria o erba porraia. Nel XII secolo d.C. il medico Ruggero Frugardi della Scuola Medica Salernitana (Rogerius Salernitanus) suggerì per la cura delle verruche l’utilizzo di unguento di brionia, aceto e zolfo. In tutto il medioevo si sono tramandati diversi rituali psicomagici come ad esempio la segnatura dei porri (che consisteva nel ripetere 3 volte il segno della croce su ogni verruca nei giorni di luna calante, oppure nello strofinare un fagiolo diverso su ogni singola verruca, per poi mettere tutti i fagioli in un sacchetto e gettarli in un pozzo in una notte di luna piena). Molti medici dell’epoca erano contemporaneamente anche astrologi, alchimisti e teologi, per cui l’influsso astrologico (per esempio ciclo lunare, posizione degli astri) era rilevante non solo per il popolo (per esempio per calcolare il momento propizio per la semina), ma anche per la comunità scientifica, fino al graduale passaggio dall’alchimia alla chimica, e dall’astrologia all’astronomia. Ad esempio se le verruche venivano curate in un periodo di luna crescente, il trattamento era considerato inefficace, e le verruche potevano persino aumentare. Altri rituali della medicina popolare dell’epoca prevedevano il bisbiglio di parole incomprensibili e la benedizione delle singole verruche con acqua santa. A seconda dei momenti storici e delle aree geografiche cambiavano i rituali. In alcune aree rurali del Sud Italia ad esempio, le verruche venivano pennellate con dei fili di paglia bagnati in olio benedetto, che poi venivano seppelliti nel terreno fino a marcire. Nel Principato di Salerno le guaritrici di campagna incantavano i puorri purificando le verruche con l’acqua del fiume Calore. Soprattutto nelle campagne, c’erano persone addette a queste pratiche psicomagiche che venivano chiamate a casa nelle giornate di luna calante per incantare, inciarmare o incalmare i porri gratuitamente o in cambio di qualche piccolo dono casalingo. In genere i segnatori o più spesso le segnatrici erano anziani contadini considerati dal popolo persone esperte in pratiche psicomagiche come scacciare il malocchio (il rituale della maldocchiatura era praticato con un piattino contenente acqua e olio), e in grado di incalmare la paura nei bambini che avevano subito uno spavento (segnatura della paura con un’erba chiamata stregona gialla), di incalmare i vermi, le ernie, le distorsioni, i colpi d’aria, le indigestioni, il mal di denti, le cefalee, la mastite, oltre che risolvere problemi cutanei come eritema solare, orzaiolo, calazio, punture di insetti, erisipela, herpes zoster, verruche e ustioni. Per le verruche ad esempio, i segnatori strofinavano i fagioli sulle singole papule, bisbigliando frasi o preghiere incomprensibili, per poi chiedere all’interessato di pronunciare profezie del tipo: «Appena marciranno i fagioli si seccheranno i porri». Nelle persone sufficientemente suggestionate e che praticavano questi rituali con una certa convinzione questi rimedi a volte funzionavano, e oggi è noto che la suggestione (PNEI = psico neuro endocrino immunologia) può mobilitare citochine, neurormoni e neurotrasmettitori nell’individuo suggestionato causando un effetto placebo che a volte funziona quasi come un farmaco. Anche l’ipnosi si basa più o meno sugli stessi princìpi, così come l’applicazione placebo di coloranti, creme e polveri varie. Il termine placebo non deve essere inteso come sinonimo di inutile o inefficace, ma come qualcosa che può a volte svolgere un’azione biologica, laddove le terapie convenzionali non hanno prodotti benefici. Nella tradizione popolare dell’epoca si riteneva che tali rituali non funzionavano se durante la pratica la segnatrice era ammalata, mestruata o in gravidanza. Alcuni di questi rituali popolari venivano menzionati anche in alcuni testi medici dell’epoca. Nel 1596 il chirurgo italiano Giovanni Tagaultio nel suo trattato di chirurgia propose per le verruche rimedi come la testa della lucertola e il liquore dell’albero di fico. Quest’ultimo prodotto è ancora oggi utilizzato nelle campagne, e ha ispirato nei tempi moderni la formulazione degli ottimi collodi cheratolitici a base di acido salicilico e acido lattico presenti tuttora in farmacia e comunemente prescritti in dermatologia. Nel 1653 il medico inglese Nicholas Culpeper pubblicò nel suo Complete Herbal un elenco di sistemi per curare le verruche, tra cui quello di applicarvi sopra del sale e della farina di foglie di grano, o il succo di celidonia (il Chelidonium majus è noto in fitoterapia come fiore delle verruche). Nel 1712 il dermatologo inglese Daniel Turner descrisse dettagliatamente le verruche nel suo trattato in 2 volumi sulle malattie della pelle. Nel 1749 il chirurgo padovano Filippo Masiero scrisse nelle sue Opere chirurgiche che la causa delle verruche era l’eccesso di umor flegmatico. Nel 1760 il medico inglese Joshua Ward suggerì per la cura delle verruche la tintura di beniamino, a base di benzoino, aconito e storace, chiamata anche balsamo del frate o balsamo dei frati. Nel 1772 il chimico scozzese Daniel Rutherford scoprì l’azoto, che in seguito sarà impiegato in dermatologia nella crioterapia con azoto liquido (per esempio crioablazione, criochirurgia). Nel 1783 il dermatologo austriaco Joseph Jakob Ritter Plenk definì anche le verruche ai piedi come escrescenze nate da velen venereo, all’interno del suo De Morbi Venerei. Nel 1785 nel suo trattato De Morbi Cutanei, sempre Plenk distinse le verruche in verruca volgare (stesso diametro alla base e all’apice), verruca sessile o porro (se sporge appena sulla superficie cutanea), verruca pensile o acrochordon (se peduncolata), verruca carnea o mollusca (gli attuali fibromi penduli), verruca umida o mirmecio (se molle e umidiccia), verruca gregale (le attuali verruche piane del viso e delle mani), verruca febbrile o vaiuolo verrucoso (se erompe dopo un episodio di febbre), verruca cancerosa o maligna (probabilmente il melanoma acrale) e verruche veneree (se localizzate ai genitali). Nel suo trattato Plenk spiega che all’epoca il popolo curava in casa le verruche strofinandovi sopra della carne cruda, o facendovi gocciolare del sangue dal capo mozzato di anguilla, e interrando poi quei rimedi. A quell’epoca c’erano rituali popolari che proponevano di far sparire le verruche strofinandole con pezzi di carne cruda da far poi mangiare ai cani randagi. Altri rituali popolari dell’epoca consistevano nello strofinare le verruche con ortaggi (per esempio aglio maschio, melanzane, cipolle) per poi sotterrarli, con l’auspicio di far sparire le verruche appena gli ortaggi marcivano. Nel 1786 il medico inglese Thomas Fowler propose l’uso di una soluzione idroalcolica all’1% di arseniato di potassio (liquore arsenicale del Fowler), oggi non più utilizzato a causa degli effetti tossici dell’arsenico. Nel 1791 il medico italiano Giovanni Battista Monteggia chiamò le verruche mali venerei idiopatici, cioè di causa sconosciuta, e nel suo compendio sulle malattie veneree distinse le escrescenze genitali in condilomi (se di grandi dimensioni), verruche (di piccole dimensioni) e porri (di piccolissime dimensioni). Erano gli anni in cui la venereologia era più importante della dermatologia, e infatti si parlava di verruche veneree causate da sifilide e gonorrea. Nel 1837 il medico tedesco Ferdinand Moritz Ascherson fece una descrizione molto accurata delle verruche piane. Nel 1857 il dermatologo fiorentino Carlo Morelli scrisse nel suo trattato sui morbi cronici della pelle che secondo lui aveva ragione il popolo, e le verruche potevano quindi trasmettersi per contatto diretto, aspetto all’epoca molto controverso per la comunità scientifica, tesa tra diverse scuole di pensiero. Nel 1865 le verruche plantari furono menzionate nel dizionario etimologico del filologo veneziano Marco Antonio Canini, in cui veniva spiegato che il nome mirmecia (dal greco formicaio) era legato al fatto che le verruche dei piedi cagionano dolori simili a quelli prodotti dalle punture di formiche. Nel 1871, nel suo trattato sulle malattie cutanee il dermatologo bolognese Pietro Gamberini definì le verruche una “bruttura” della pelle conosciuta anche come bitorzolo o porro. Gamberini spiegò accuratamente nel suo trattato la trasmissione delle verruche attraverso il contatto diretto e attraverso gli asciugamani, e definì questo tipo di contagio come superiore alle nostre cognizioni. In fondo era proprio così, dal momento che non era stato ancora scoperto il microscopio elettronico. Nel 1873 il dermatologo austriaco Isidor Neumann distinse le verruche in volgari, piane e filiformi, e propose come terapia il taglio con forbici a cucchiaio e le spennellature con una pasta di zolfo e acido acetico. Sempre nel 1873, nel suo manuale di igiene il medico militare piemontese Eugenio Franchini criticò gli approcci terapeutici secondo lui poco seri utilizzati da alcuni suoi rinomati colleghi contemporanei, tra cui quello di esporre il porro allo splendor della luna, l’unzione del porro con il cerume dell’orecchio, l’applicazione del mestruo, l’applicazione di latte d’asina, lo strofinio con una fava verde, e il contatto del porro con un cadavere. Nel suo manuale Franchini propose invece la causticazione delle verruche con la pietra infernale (l’attuale matita caustica al nitrato d’argento). Nel 1874 dermatologo austriaco Ferdinand von Hebra fece un’ampia descrizione delle verruche, concludendo però che l’origine era ancora ignota. Nel 1882 il dermatologo italiano Domenico Maiocchi osservò nelle verruche un piccolo batterio allungato a cui diede il nome di Bacterium porri. Il medico rumeno Victor Babeș vi trovò invece dei micrococchi. Nel 1888 il dermatologo francese Ferdinand Jean Darier trovò all’interno delle verruche sia cocchi che bacilli, ma non vi attribuì alcuna importanza come possibile causa. I dermatologi italiani Giuseppe Lupis e Tommaso De Amicis riuscirono a isolare dalle verruche solo i comuni batteri commensali, anticipando di quasi un secolo l’attuale concetto di microbiota cutaneo (dermobiota). Nel 1891 il medico inglese Joseph Frank Payne propose di prendere in seria considerazione l’origine trasmissibile delle verruche, già proposta in precedenza. Nel 1893 il dermatologo francese Louis Alphonse Gemy pensò che le verruche comuni e le verruche genitali avessero una stessa origine. Nel 1894 il dermatologo tedesco Josef Jadassohn inoculò i cheratinociti provenienti da una verruca sulla pelle di 74 volontari sani, e 33 ebbero esito positivo, dimostrando che le verruche erano contagiose, e ipotizzando come parassita responsabile un coccidio, un piccolo protozoo a forma di chicco (dal greco κόκκους = chicco; e ìδιος = forma). All’epoca si pensava che le verruche fossero veicolate da batteri. Nel 1898 il microbiologo olandese Martinus Willem Beijerinck usò per primo la parola virus per descrivere agenti infettivi più piccoli dei batteri. Nel 1905 il dermatologo svizzero Max Juliusberg descrisse il virus del mollusco contagioso umano. Nell’ottobre del 1906 il dermatologo cagliaritano Giuseppe Ciuffo dimostrò al IV Congresso Italiano di Patologia tenutosi a Parigi, che le verruche umane sono trasmissibili mediante materiale cutaneo ultrafiltrato (materiale proveniente da verruche e fatto passare attraverso speciali filtri in ceramica, in grado di trattenere cellule e batteri). Egli si inoculò un estratto di verruche volgari dimostrandone la contagiosità ed escludendo una causa batterica, in quanto si utilizzò un ultrafiltrato privo di cellule. Egli iniziò a inoculare materiale ultrafiltrato proveniente da verruche genitali, in aree non genitali, provocando verruche comuni e a inoculare sui genitali materiale ultrafiltrato proveniente da verruche comuni, determinando la comparsa di condilomi. Nel 1907 alcuni di questi esperimenti furono pubblicati sul Giornale Italiano delle Malattie Veneree e della Pelle. Gli esperimenti di autoinoculazione furono effettuati sotto la guida del suo maestro, il dermatologo pavese Umberto Mantegazza, con il prezioso aiuto del patologo marchigiano Eugenio Centanni. Nel 1919 dermatologi americani Udo Wile e Lyle Kingery confermarono gli esperimenti effettuati da Giuseppe Ciuffo, precisando che le verruche non erano causate da batteri, ma erano associate a un virus filtrabile, di cui però non se ne conosceva ancora la natura. Nel 1931 gli scienziati tedeschi Ernst Ruska e Max Knoll scoprirono il microscopio elettronico, con il quale fu possibile osservare i virus, non visibili prima della loro straordinaria scoperta, perché non osservabili con un normale microscopio ottico. Nel 1933 il virologo americano Richard Edwin Shope isolò il Papillomavirus e lo chiamò il virus delle verruche. Nel 1949 il dermatologo americano Herman Vogt Allington annunciò al 78° Congresso della California Medical Association l’utilizzo dell’azoto liquido in dermatologia, e l’anno successivo pubblicò tutti i dettagli in un interessante articolo. All’epoca l’azoto liquido si applicava sulle verruche con un cotton flock imbevuto di azoto liquido (in alcuni casi tale metodica è utile ancora oggi), mentre per la nascita dei moderni apparecchi professionali di crioterapia dermatologica occorrerà attendere il 1965 con il prezioso contributo del dermatologo americano Douglas Torre. Nel 1954 i ricercatori americani Thomas Barrett, John Silbar e James McGinley descrissero la natura venerea dei condilomi. Nel 2001 fu realizzato il primo vaccino per alcuni sottotipi di HPV (sottotipo 6, 11, 16 e 18), mentre attualmente comprende altri ceppi aggiuntivi. Nel corso della storia sono stati impiegati diversi sinonimi per descrivere le verruche dei piedi, tra cui verruca pedis, mirmecia, verruche profonde, papillomi, mirmecie plantari, mirmecio, verruche endofitiche, verruca pedis, chiodi di Avicenna, verrucole, bitorzoli, porri, callosità, calli, duroni, durezze, durillon, tiloma, heloma, tilosi, corno plantare, deep warts, cheratoma e verruche plantari a mosaico. Attualmente calli, occhi di pernice e verruche sono stati inseriti nel sistema di classificazione internazionale delle malattie ICD11 con appositi codici, che sono rispettivamente EH92.00 per i calli, EH92.0Z per duroni e callosità, EH92.01 per l’occhio di pernice e 1E80.1 per le verruche plantari.
Come eliminare verruche plantari, calli, duroni e occhio di pernice
La terapia delle verruche plantari si basa sia sull’impiego di farmaci topici, alcuni dei quali derivano dalla tradizione popolare. I collodi a base di acido lattico e acido salicilico, ad esempio, contengono sostanze simili a quelle presenti nel lattice dei fichi utilizzato da secoli per eliminare le verruche dei piedi. Alcuni di essi sono noti anche come callifughi (perché utili per curare calli e verruche), ma trattandosi di veri e propri farmaci, nei distretti corporei più delicati vanno utilizzati con estrema cautela, attenendosi alle indicazioni riportate sulla ricetta medica prescritta dal proprio dermatologo (per esempio sulle verruche di aree delicate del viso e del collo si utilizzano cheratolitici meno invasivi, magari a base di urea o di blandi retinoidi). L’imiquimod in crema è un farmaco impiegato solitamente nella cura del basalioma, delle cheratosi attiniche e delle verruche genitali (le cosiddette creste di gallo o condilomi), e può essere preso in considerazione in presenza di verruche plantari particolarmente resistenti alle terapie tradizionali, dopo adeguato decappaggio. Anche le soluzioni cheratolitiche a base di idrossido di potassio al 5% sono spesso utilizzate in dermatologia per curare le verruche plantari, così come le preparazioni a base di glutaraldeide o acido formico. L’applicazione di rimedi naturali come l’aceto di mele (fonte di acido acetico) o di fitoterapici come la tintura madre di Thuja occidentalis può essere talora utile in affiancamento ai farmaci tradizionali. Anzi, alcuni cheratolitici di farmacia, possono contenere al loro interno oltre ai classici princìpi attivi dei farmaci (per esempio acido salicilico), anche sostanze naturali tra cui thuya e acido acetico. Quando durante il trattamento farmacologico domiciliare la verruca sanguina, vuol dire che si è raggiunto il derma, e il sanguinamento puntiforme è indice della decapitazione delle papille dermiche ipertrofiche. In caso di dubbi sull’andamento della terapia, contattare sempre il proprio dermatologo di riferimento, evitando automedicazione e abuso di medicinali, anche quando si tratta di farmaci topici. Mentre per la terapia delle verruche volgari (i comuni porri) può essere sufficiente qualche seduta di crioterapia con azoto liquido o l’applicazione di un cheratolitico per pochi giorni, in presenza di verruche plantari è importante tener presente che, data la sede, e trattandosi spesso di verruche profonde, possono talora essere necessarie diverse settimane di terapia, e di altrettanti step consecutivi. Man mano che si procede con la terapia, le verruche diventano meno dolenti. L’alone bianco che si forma intorno alla verruca durante l’applicazione di farmaci cheratolitici è indice del corretto funzionamento della terapia, e può essere interrotta per qualche giorno in caso di eccessiva irritazione.
La crioterapia con azoto liquido è spesso utilizzata per il trattamento delle verruche plantari, e spesso richiede più sedute. Quando effettuata su altre aree del corpo, la crioterapia con azoto liquido può dar luogo alla formazione di bolle temporanee della durata di qualche giorno, mentre dopo una seduta di crioterapia delle verruche plantari, è molto più raro osservare la formazione di tali bolle, a causa dell’elevato spessore dello strato corneo in questo distretto corporeo. La cosiddetta cura con il freddo si basa sull’uso dell’azoto liquido (crioterapia dermatologica a -195,8 °C) o meno spesso sull’uso di sostanze come l’ossigeno liquido (−182,97 °C), il protossido di azoto (-88,48 °C) e l’anidride carbonica (-78,46 °C) nota anche come ghiaccio secco. La cosiddetta cura con il caldo si basa invece su metodiche più invasive come la diatermocoagulazione e il laser, non sempre indicate per la cura delle verruche plantari. L’asportazione chirurgica della verruca, del callo o dell’occhio di pernice, può essere utile nei rari casi di formazioni particolarmente resistenti ai trattamenti convenzionali. Esistono anche appositi cerotti medicati sotto forma di dischetti adesivi da applicare sulla singola verruca per tutto il periodo indicato al momento della visita medica dal proprio dermatologo di riferimento. Contengono al loro interno farmaci cheratolitici, e vanno pertanto utilizzati con le dovute precauzioni, come accade per qualsiasi altro farmaco.
Quando la verruca è particolarmente cheratosica, si può velocizzare il trattamento praticando un lieve curettage così da consentire al farmaco cheratolitico o all’azoto liquido di agire in tempi più rapidi. Al posto del curettage, in casa si può levigare la verruca delicatamente con una limetta di cartone prima di applicare il farmaco, evitando di farla sanguinare seguendo le modalità concordate al momento della visita dermatologica. Per la cura dei calli, dei duroni e degli occhi di pernice, si può ricorrere a sistemi più o meno simili, ma occorre innanzitutto lavorare sulle possibili cause (per esempio utilizzo di calzature adeguate che limitano l’attrito, uso di plantari personalizzati dopo opportuna valutazione posturologica e plantoscopia). Per ridurre il dolore da occhio di pernice esistono apposite protezioni tubulari che limitano lo sfregamento meccanico e l’infiammazione cutanea. Non tutte le formazioni verrucose dei piedi sono necessariamente calli o verruche. Una psoriasi pustolosa dei piedi ad esempio sarà curata con farmaci totalmente diversi. Quando le verruche plantari sono particolarmente profonde e dolenti è utile un lavoro di squadra tra dermatologo e altre branche mediche, come ad esempio il radiologo, l’ortopedico, il chirurgo, il fisiatra o il medico dello sport.